Una volta Ivan mi disse, con un certo dispetto, che i morti sono tutti uguali e che facevo meglio a rendermene conto il prima possibile. Per dirmelo mi aveva convocato nel garage, dove passava un sacco di tempo a potenziare marmitte e occuparsi di carburatori con i suoi amici. Gli chiesi cosa intendesse dire.
Era una vecchia Peugeot Helium bianca, di quelle pieghevoli.
“Può ancora dire la sua”, ci aveva assicurato lo zio. In realtà era un catorcio. Ci andavamo sempre in due, alternandoci alla guida.
Avrebbe continuato fino a far cadere il campanello a terra? Nicolas avrebbe reagito? Con la risposta di prima ero stato in grado di reggere la scena ma se avessero fatto a botte come mi sarei comportato? Sarei intervenuto? Forse sarei semplicemente andato in iperventilazione. Era già successo.
Il ragazzo del lecca lecca si fermò e andò a sedersi dietro di lui.
“Chi perde è una lurida merda”, fece il ragazzo abbronzato mentre cominciava già a pedalare.
Il ragazzo abbronzato allungò una mano in cerca del nostro freno destro. Dietro, il ragazzo con il lecca lecca ciucciava con rabbiosa concentrazione. Eravamo gli uni a ridosso degli altri. Io tentai di allontanarli spingendo con il piede sulla loro ruota ma qualcosa andò storto. Non so dire bene dove si infilò il mio piede fatto sta che, tra i raggi e la forcella, qualcosa prese a scavarmi la caviglia ferocemente. Ritrassi il piede urlando. Nicolas arpionò i freni e dall’asfalto si levò un coro di suole trascinate. Scesi dalla bici e galoppai verso la fontanella, tallonato da Nicolas. Gli insulti dei nostri avversari non tardarono a raggiungerci. Il ragazzino con il lecca lecca, quello che non aveva detto ancora una parola, era sceso della bicicletta e si stava sgolando. L’altro sanciva la vittoria destreggiandosi in una serie di impennate trionfali.
“Torna sulla terra, ciccio”, mi incalzò.
Poi mi lasciò andare. Dopo qualche giorno avevo una cicatrice lunga almeno mezza spanna.
Era bella a vedersi così in rilievo, gonfia e rosa. La osservavo inorgoglito e immaginavo fosse opera di Leo. Mi figuravo che lui avesse passato invisibilmente il suo dito lungo la ferita, rimarginandola in quel modo artistico. Aveva sistemato le cose per bene, come al solito. Mi aveva visto esplorare sconfitte che erano imprese memorabili. Tra impellenze ed espedienti affiorati nella lenta trama di quei pomeriggi assolati e inaffidabili. Mi aveva visto felice. E ci aveva messo un sigillo. Altro che morti tutti uguali, pensavo.
merita d’esser letta