Quand’arrivi è un settembre che la sera non fa freddo, torno in bici col vento carezzevole. Arrivi, hai gli occhi belli: non paiono nemmeno gualciti, come fossero mondati, disappannati in un gesto. Come fossero intatti. Lo penso un attimo, intanto che ti saluto. Forse hai solo dormito. Oppure si torna intatti, ch’è un bel pensiero.
A volte il tempo è davvero così, denso di densità galattiche. L’ho letto in un librino carta da zucchero, opaco: i collassi, gli spegnimenti, le stelle che smettono di esserlo comprimono tutto in piccoli punti, né infinitesimi né irreali. La spinta è tale che si deve, è necessario, creare qualcosa che controbilanci, una forza uguale e contraria. Potremmo cavarcela così, sarebbe elegante: vedi, amore, eravamo stella di Planck di grandi dolori. Ci siamo amati di rimbalzo fisico, astrofisico, ci siamo amati per vita uguale e contraria. E poi? Scandaglio l’opaco. Dice che le cose cadono: è lo spazio che s’incurva.
Terapia intensiva apre alle tre e mezza. Ti offri d’aiutarmi a tirare le tre. Davanti alla stazione c’è un parco e nel parco le collinette. Di tutto quello che ci saremo detti mi ricordo una carezza sul braccio, lievissima.
Tre minuti prima delle tre mi alzo. Un caffè, ti chiedo per via. Ci sediamo in un posto che ha la birra amara. Mi piace il legno grezzo dei tavoli all’aperto, in un giardino a forma di pesce, sa di pulito e assemblaggi. Il caffè ce lo portano, hanno una moka Bialetti per tre. Quant’abbondanza, dici. E ci versiamo, ti verso, tutto il caffè: un po’ per me, un po’ per tre.
È inesorabilmente ora, poi, ho un vestito rosa sottile, con un drappeggio, d’un tessuto che mi pare sempre un fiore, quando sono lieta. Sono lieta. Entro e ti offro il caffè, tengo lo scontrino. Poi, vedi, terapia intensiva ha aperto, il nonno aveva gli occhi chiusi, lascio la bici in Santa Maria di Campagna, che anche quando sono triste mi pare sempre bella, torno a piedi, è tardi, riavvolgiamo i giardini con un certo imperio nel passo, ti accompagno a un treno. Mi tieni stretta fino allo scatto rosso che vuol dire sto per chiudermi. Non diciamo nulla.
Poi, vedi, il nonno ha aperto gli occhi e qualche settimana dopo li ha richiusi. Penso di amarti una notte che mi scrivi alle quattro di mattina che la tua famiglia c’è, ma non l’hai scelta. Mi pare di capire dritto, passo qualche ora sveglia a modellare la risposta: anche la mia famiglia è fatta di ruoli come categorie pencolanti, sono caselle che occupano uno spazio, lo tengono vuoto. Col tempo, capisci che il discrimine non è più il ruolo, ma il riempirlo.
Sta morendo la persona che è stata tuo padre, non essendolo, a volte io salto le perifrasi, viveva per te, dicevi, doveva ben essere tuo padre. (Una cosa stupida che m’incantò: lo chiamavi la mia stella, io mi chiamo così con la maiuscola, un giorno mi scrivesti ch’era un avvicendamento, un prendere per mano il testimone, che la vita non era poi così crudele, in fondo, se già spargeva a grandi mani, a trapuntare il mondo, a tenertici saldo dentro, polvere di stella tutt’attorno. Quando gli parlasti di me, uno degli ultimi giorni d’agonia, piansi).
Dicevi che le coincidenze non hanno senso dell’umorismo. Forse nemmeno le storie. Sta morendo, nello stesso preciso momento nel mondo, la persona che è stata mio padre, non essendolo.
Forse la persona che più m’assomiglia, maestro, contadino, col naso troppo grande, forse quella che meno poteva assomigliarmi. Bataille scriveva che la comunione è tanto più perfetta quanto nude sono le ferite. Ma l’ho trovato dopo, l’ho appiccicato poi.
Lì per lì mi chiamavi ai margini della notte e io t’ascoltavo come se ti toccassi, come se potessi sentire con quale intensità, quale cura lo facevo e trarne un conforto che solo il sollievo della pelle. Pensavo ad abbracci come armatura, balsamo e sostegno.
Hai una schiena che mi fa sentire femmina, ampia e scura, io in piedi, se t’abbraccio da dietro, arrivo a un punto fra le scapole dove poso un bacio. Un bacio fra le scapole diventa, fra tante, locuzione di amore rimesso, sperpero minerale.
È un’estate in cui, ti dico, lo so, vale tutto: l’emergenza, l’indigenza ha queste regole. Non c’è tempo per i contratti, per i negoziati: sono qui, tutto quel che può servire, è tuo.
Tua madre, quando la incontro, è sfinita e vestita di bianco. L’appuntamento è nei ritagli, ci incrociamo davanti alle angurie della coop di Cisanello (Linfa vitale, dicevi. Ti ho comprato tutte le angurie che ho trovato, una volta che non ne ho trovata nessuna, ho rubato un melone da un frigo, per te, senza che per un attimo tutto smettesse di parermi perfettamente ragionevole).
Quando la rivedo è nel centro assolato di una piazza, è finita, è morto tuo padre, sopra i gradini c’è la camera ardente. Mi abbraccia ringraziandomi. Poi arrivi tu e mi tieni lì, contro, stretto, zitto.
Dentro fa un freddo condizionato necessario, però crudele, pare capace di irrigidirti, oltre al collo, tutta una serie di ingranaggi fluidi. Uscendo, lo scongelamento pare più umano. Ci troviamo a un tratto seduti sui gradini e tu m’inviti al mare, Capraia è bellissima, per me è importante. E io scherzo con degli scherzi che vogliono saltare e dire sì e baciarti, poi gli scherzi intercettano un tuo un momento di silenzio che li disorienta. Tu rialzi lo sguardo e dici, con una strana piega della bocca che scambio per un sorriso, eccone un’altra.
Era vero, arrivava sulla piazza. Pallida, sottile, dolce, coi riccioli. La conosco, fa la nostra Università. Ho sempre pensato fosse bellissima. Mi ricordo un’alba in cui, sedute per terra vicine, ci dicevamo le cose
dell’altra che avremmo voluto. Io dicevo la tua grazia, lei il tuo modo di entrare nelle cose. Bacia tua madre e poi viene a sedersi sui gradini con noi.
Pensiamo che le cose grandi, a spezzarsi, facciano grandi rumori. In realtà no. Non ho fatto nessun rumore. Le ho offerto, poi, delle albicocche: non aveva mangiato.
Eccone un’altra, quant’abbondanza, pensavo. Qualche giorno fa, per caso, ho trovato lo scontrino di quel caffè, dimenticato in una tasca. L’ho buttato.
Testo Stella Poli
Illustrazione Margherita Travaglia
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