Nella prima inquadratura vediamo soltanto la casa galleggiante, immersa nel buio. Dei riflettori lungo la riva del fiume disegnano su muri e vetrate l’ombra dondolante di un palmizio, mentre i poliziotti e le guardie private passeggiano lì intorno.
Un paio di secondi e poi comincia la sequenza dentro la casa, una scatola di cartongesso in cui l’aria circola male e c’è un odore di plastica che mette la nausea, lo so perché ci sono entrato, una volta.
Lo Zebra è nella sua camera, nudo, sdraiato su un fianco sopra le coperte, non si capisce se dorma davvero o stia solo fingendo. Tutti i partecipanti hanno fatto finta di dormire, almeno una volta. Lo Zebra si mette seduto, e dopo aver poggiato i piedi sulla moquette spinge la mano sotto al materasso, tira fuori qualcosa ma non si capisce che cosa sia perché di notte le immagini all’interno della casa sono tutte sfocate, grigie, direi oscure, e ogni superficie, ogni oggetto, ogni corpo umano sembra fatto della stessa sostanza gommosa e fluorescente.
Lo Zebra si alza, fa il giro del letto e va alla porta, c’è uno stacco nelle immagini, ora siamo in corridoio, in fondo c’è un’enorme finestra che dà sul giardino interno.
Lo Zebra sembra osservare per un istante il proprio riflesso sul vetro, un ragazzo alto un metro e novanta, il fisico scolpito da un decennio di palestra. Mette la mano libera dietro la testa, contrae gli addominali e si irrigidisce per qualche secondo in una posa da concorso, infine apre la porta alla sua sinistra ed entra nella stanza, stacco, l’immagine è grandangolare, sulla moquette davanti a lui sono sparpagliate delle cose, mi pare dei vestiti. Lo Zebra salta sul letto, un corpo sotto al cumulo disordinato di trapunte e cuscini sembra rattrappirsi come quello di un insetto, e facciamo appena in tempo ad accorgerci del coltello nella mano dello Zebra, in alto sopra la testa, il braccio pronto a scattare, che l’immagine sfarfalla e per un istante si fa tutta nera. Poi si sente suonare un
allarme, l’immagine ritorna e si vede lo Zebra seduto a terra a fianco del letto, tutto sporco di qualcosa (di sangue, ma dal video non si può capire) e c’è una ragazza in mutande che strilla e saltella in mezzo alla stanza, con le mani strette a pugno, la pelle tesa e bianca sulle nocche sporgenti, anche se forse questo dettaglio me lo immagino soltanto. Un piede immobile spunta fuori dal groviglio di cuscini e piumoni al fondo del letto. Lo Zebra si alza ed esce dalla stanza. Stacco sullo Zebra che cammina in corridoio ed entra nella sua camera, stacco, lo Zebra è davanti all’armadio che si infila un paio di pantaloni.
Incontro lo Zebra in carne e ossa soltanto due anni dopo, in un minuscolo camerino con le pareti di perlinato, una cosa bizzarra visto che siamo in città e fuori ci sono almeno trenta gradi. Lui è seduto su una sedia pieghevole, io pure, i ragazzi ci ronzano intorno con una certa agitazione, soprattutto Boris, che è con noi da appena sei mesi e nonostante sia alto solo un metro e quaranta ha un talento straordinario nel maneggiare la telecamera. È una specie di nano. Una sindrome, o qualcosa del genere. Non lo so, non ho voluto troppe spiegazioni. Comunque, lo Zebra parla e gesticola mentre io prendo appunti su un taccuino. La cosa mi fa sentire un giornalista di professione, anche se non è così, sono solo un portavoce della curiosità sociale, per così dire.
Quando mi hanno portato nella casa, dice lo Zebra, sono venuti a prendermi con un furgone blindato, un Mercedes.
Pioveva che Dio la mandava, dice, e ricordo che siamo finiti su una statale vicino a un prato, in periferia, pieno di vacche che pascolavano sotto la pioggia. Pensa che vita di merda. A pascolare su un prato per chissà quante ore o giorni interi.
Mi hanno fatto pena, dice lo Zebra, e io scrivo sul taccuino vacche bagnate noia pena, noia e pena sottolineate. Vicino a me sul Mercedes c’era Mimmo, dice, e mentre Mimmo mi parlava io pensavo a quanto la mia vita fosse diversa dalla vita di quelle vacche, Mimmo con la sua giacca blu e la crapa pelata mi diceva di stare tranquillo, di entrare con naturalezza nel più grande evento mediatico della stagione, entrare nell’evento mediatico, scrivo e sottolineo evento mediatico, poi aggiungo con naturalezza.
La mia vita era diversa anche dalla vita di Mimmo, a ben pensarci, dice lo Zebra, la mia vita come perfetto punto intermedio tra la vita di quelle vacche e la vita di Mimmo, lo dice unendo il pollice e indice di una mano davanti alla faccia, il perfetto punto intermedio tra quella montagna di pelo duro schizzato di fango e quella giacca blu leggera, da passeggiata sul lungomare. Io ero in mezzo, dice lo Zebra, sono sempre stato in mezzo agli estremi, me lo diceva già la mia mamma che ero sempre nel mezzo, che rischiavo il carcere ogni fine settimana e però ero tanto bello quanto un attore, ce l’aveva lei con questa storia che ero bello e sarei finito prima o poi in televisione, la mia mamma meno male che non c’è più.
Nessuna pressione in quella casa, per carità, non c’era assolutamente nessuna pressione, soltanto un uomo di fronte a un altro uomo, dice, e io scrivo nessuna pressione, tutto sottolineato. Pensavamo sempre e solo alle telecamere, dice, era un’ossessione, ci pensavamo di continuo ma facevamo finta che non fosse così, tutti quei topolini grigi con gli occhi rossi, sparpagliati ovunque, quegli aggeggi incredibili, era come se dentro di loro ci stessero tutti quanti, tutta la gente, tutti gli occhi sgranati e le bocche spalancate, e io, continua lo Zebra, a un certo punto ho capito cosa dovevo fare, scrivo a un tratto capisce cosa deve fare proprio mentre il caldo in quel piccolo camerino legnoso si fa insopportabile, e quando penso che potrei svenire per tutto quel caldo Boris viene dallo Zebra e gli chiede se durante la registrazione sia disposto a mettersi una canotta anziché una maglietta, in modo tale che si riescano a vedere i tatuaggi che si è fatto fare in carcere.
Lo Zebra dice di sì e Boris se ne va, rivolgendomi però uno sguardo carico di mortificazione per questa intromissione, sguardo a cui io rispondo chiudendo gli occhi per un attimo e allargando appena appena le labbra. Un cenno di benevolenza. Sento ancora la sua voce alle mie spalle, alterniamo colore e bianconero, dice a qualcuno, intanto lo Zebra mi sta di nuovo parlando, i suoi occhi verdi mi trafiggono come smeraldi acuminati. Gli ho ficcato tutto quanto il coltello nel collo e la sua gola ha iniziato a gorgogliare, dice, poi mi chiede se so che Mimmo si è ucciso, faccio un cenno affermativo con la testa, lo so, si è buttato sotto un treno, dico.
Cazzo quanti morti, dice lo Zebra, e Mimmo, e mia madre, e quell’altro, va be certo. Buttarsi sotto un treno, dice, oppure un camion, uno di quelli americani con il muso lunghissimo, mentre sfreccia sull’autostrada, è davvero un gran finale, un finale spettacolare. Invece quell’altro, dice, quando era già morto la sua gola gorgogliava ancora, come quando soffi con una cannuccia dentro a un bicchiere. Poi lo Zebra si accheta definitivamente e io rimango lì a fissarlo per qualche istante senza capire, scrivo però suicidio finale spettacolo, sottolineo spettacolo, aggiungo un punto interrogativo, ed ecco che ritorna Boris, armato di telecamera, per avvertirci che fuori aspettano lo Zebra per la pausa pranzo.
Sulle scene in bianconero facciamo allora Nuvole Bianche di Einaudi, mi dice, di fatto chiedendomene conferma. Io non rispondo, a volte delle domande che penzolano nel vuoto hanno l’effetto di rendere i ragazzi più concentrati, più reattivi.
Io e lo Zebra usciamo all’aperto, seguiti da Boris che ci riprende di spalle con la telecamera. Accecato dal sole, lo Zebra strizza gli occhi e si infila degli occhiali a specchio. Fa un caldo infernale, mi chiedo cosa ci facciamo lì in mezzo a tutto quel caldo e quei palazzi che sembrano stringersi sopra di noi come se fosse il calore stesso a scioglierli e curvarli in avanti, una roba angosciosa in fondo, dovremmo essere tutti lontani, in mezzo alla natura, per così dire. Che razza di banalità, penso immediatamente, eppure una parte di me è lì con lo Zebra, che sembra quasi fottersene della mia presenza, e una parte invece si perde a immaginare rive sabbiose e mari cristallini, velieri bianchi spinti dal Maestrale o qualche altro vento del Mediterraneo di cui ignoro il nome ma che comunque solo a sentirne parlare ti fa venire quella specie di voglia di vivere, di respirare. Lo Zebra ci è nato in mezzo a quei palazzi, me lo aveva detto una sera al telefono, una delle nostre prime conversazioni. Avevamo un piccolo balcone al settimo piano, mi aveva detto, e mia madre aveva sempre quello schifo di nylon sul balcone che copriva ogni cosa, e non c’era verso di farglielo togliere, non voleva sentire ragioni, mia madre era una cocciuta del cazzo. Quel nylon da casa popolare. Una povera cocciuta del cazzo aveva detto, adesso me lo ricordo perfettamente, mia madre era una povera cocciuta del cazzo. Così penso che dopo la pausa pranzo potrei provare a chiedergli di nuovo di suo padre, sto per prendere il taccuino dallo zaino per scrivere chiedere di nuovo di papà, ma vengo distratto da una delle due guardie carcerarie che ci aspettano dall’altro lato della strada e che ci sta dicendo di muoverci, perché hanno i minuti contati, lo dice urlando, per superare il baccano delle altre auto che sfrecciano di qua e di là.
In effetti noi stiamo camminando piuttosto lentamente, più che altro per permettere a Boris di essere fluido nella ripresa, un’andatura cinematografica, per così dire, e allora acceleriamo appena un po’ il passo, Boris deve comunque fare il suo lavoro.
Mentre lo Zebra si prepara ad attraversare la strada io guardo il suo profilo in controluce e incomincio a immaginare la sua mitografia contemporanea. Si volta a destra e sinistra e vede solo lamiere luccicanti, vapori scuri di monossido di carbonio che salgono al cielo e un enorme cartellone pubblicitario con lo sfondo azzurro appeso al cornicione di un condominio in ristrutturazione. Ascolto il suono dei suoi passi sull’asfalto.
Samsung. Sony. Panasonic.
Testo Luca Ferrero
Illustrazione Luca Bastianelli