LETTURATORE presenta

zio ben

Non apro Facebook da un paio di mesi, ma stanotte è morto zio Benedetto e sto pensando di tornarci per farlo sapere a un po’ di amici e conoscenti. Solo, mi chiedo cosa scrivere: potrei limitarmi alla fredda notizia, specificando data, orario e luogo del funerale, ma temo che potrebbe sembrare un po’ poco. Oppure potrei dare un’occhiata alle bacheche di N e F, che di recente hanno avuto un lutto, per vedere come hanno affrontato la cosa.
Mentre butto giù queste righe zio Benedetto è di là, nella bara di rovere che sembra una nave, circondato dalle sorelle sue e di zia (la loro desolazione, il mare aperto). Zia invece è in cucina, seduta immobile in poltrona. Non credo abbia ancora realizzato che zio Ben se n’è andato davvero, alla fine – Zio Ben, così l’ho sempre chiamato, come lo zio Ben dell’Uomo Ragno. Anche lui, in effetti, mi ha cresciuto, ma a portarselo via non è stato un rapinatore. Né io ho mai imparato ad arrampicarmi sui muri. Poco male, in città non c’è granché da scalare, e non ci sono neppure chissà quali criminali.
Ricordo quella volta che zio Ben beccò il figlio più piccolo dei Calasso che cercava di scassinare l’auto dei vicini: erano le due di notte, eravamo tornati dall’anniversario di matrimonio di zio e zia. Zio Ben, mezzo sbronzo, notò questa figura accovacciata ad armeggiare con la serratura e urlò qualcosa con quella voce odiosa degli ubriachi quando si agitano per niente. Il ragazzo fuggì per qualche metro a quattro zampe, e zio gli fu addosso: prima gli rifilò un calcio nel sedere, poi lo prese per un orecchio e lo trascinò indietro fino all’auto. Lì lo obbligò a chiamare a casa e a dire tutto ai suoi: il ragazzo era stato suo alunno e a zio Ben bruciava il fallimento, anche se a scuola tutti i fratelli Calasso erano sempre stati una causa persa.

Giulia Mangione 1

L’ultimo mese è stato terribile. All’inizio zio Ben sembrava aver capito che era finita, poi ha iniziato a dormire per la maggior parte del tempo. Quando si svegliava, non faceva che chiedere che ore fossero, e se avevo portato fuori l’immondizia o se toccava a lui. Per il resto era impossibile parlarci. Faceva dei sogni, si capiva da come si agitava, poi si svegliava e li raccontava, o meglio era come se li rimasticasse, come se rimasticasse una pappetta che non era riuscito a buttare giù del tutto. Ne ricordo uno che ha mormorato nel dormiveglia, una notte che zia non riusciva proprio a rimanere a letto e mi aveva chiesto se potevo starci io, in camera. Sono rimasto seduto accanto a zio Ben fino all’alba, con la sensazione di riuscire quasi a vedere questo sogno mentre lui lo sputava e risputava fuori (l’avraà raccontato tre o quattro volte di fila, con una lentezza esasperante): sfondo nero, una notte scurissima, una donna – secondo me zia – che volteggiava come nello spazio, vestita di luce, attorniata da bolle d’acqua prima piccole, poi via via più grandi, finché questa donna – zia, a quel punto ne ero certo – non veniva inglobata dalla bolla più grande mentre le altre scoppiavano riempiendo lo sfondo di luce, e alla fine lo sfondo diventava completamente bianco saturando il sogno, per così dire. Quando l’ho raccontato a zia, il mattino dopo, ha detto qualcosa su Mina, la cantante, e si è messa a ridere piano, come in un delirio segreto, e poi – be’– poi sono arrivati i singhiozzi.

Potrei raccontare questo sogno, nel mio post su Facebook? Oppure l’episodio del piccolo dei Calasso? Passo minuti interi a scorrere la home per vedere se la notizia è già venuta fuori, e nel frattempo continuo a cercare quanto scritto da N e F nei mesi scorsi. Infine torno qui, sul foglio Word – ecco, potrei raccontare di quella volta che zio Ben ha scoperto che fumavo. Avevo 16 anni: per un mese non mi ha rivolto la parola per via del fatto che anche mio padre, suo fratello, fumava, e che quando ha smesso era troppo tardi. Poi un giorno zio è venuto da me e mi ha chiesto di accenderne una.
“Coraggio”, ha detto.
Sulle prime ho pensato che mi stesse prendendo in giro, ma insisteva. Allora ho tirato fuori il pacchetto e l’accendino, mi tremavano un po’ le mani e cercavo di non darlo a vedere. La sigaretta l’ha presa lui, dal pacchetto, prima di allungarla verso la mia bocca. L’ho accesa e ho fatto un paio di tiri: non aspiravo un bel niente, mi sono sentito scemo mentre zio rideva e una settimana dopo ho smesso pure di provarci: meglio i miei amici fumatori a prendermi in giro, che zio Ben.

Quando è morto suo padre, N ha postato un lungo racconto in cui ricordava alcuni momenti piuttosto intimi del loro rapporto: non menzionava mai la morte, eppure abbiamo capito tutti che quel post serviva a farci sapere che suo padre non c’era più. O forse no, forse era semplicemente uno sfogo? Quando è morta sua sorella, invece, F ha scritto solo che le sarebbe mancata, ha aggiunto un cuoricino e una foto di loro due da bambine. E giù commenti di cordoglio e condoglianze. Mi chiedo se non è quello che voglio anch’io, in fondo: un po’ di calore e vicinanza, anche se di passaggio. Soprattutto: lo voglio per me o per zio Ben?

Certo, potrei sempre limitarmi a scrivere ciò che si sapeva pubblicamente dello zio: e cioé che era un uomo coraggioso, un professore stimato, l’uomo che mi ha insegnato tutto quel che so e che sono. È tutto vero, non prenderei in giro nessuno: ma continuo ad avere una sensazione di vuoto. Cosa mi blocca? Forse il fatto stesso che sto scrivendo qui quello che di solito si scrive pubblicamente in queste circostanze? Il fatto di scriverne in questi termini, privatamente, esaurisce ogni desiderio di scriverne in pubblico? So anche che quando avrò chiuso questa pagina e spento il computer dovrò tornare di là, ad abbracciare zia, incontrare amici e parenti, richiamare il tizio delle pompe funebri per farmi ripetere a che ora arriva il carro. Forse la verità è che voglio restare ancora un po’ qui, chiuso in questa parentesi, questa conchiglia appena socchiusa che mi protegge da quello che mi aspetta.
È buffo: da ragazzi pensiamo che il mondo fuori sia la parentesi, e che quello dentro – la famiglia, gli amici più intimi – sia quello vero, destinato a durare. Invece le cose là fuori continuano ad andare, a fluire per gli affari loro, mentre dentro le cose implodono da un giorno all’altro.
È quello il fiume in piena, ogni volta c’è da capire qual è il momento giusto per entrarci, quello migliore per uscirne. Sempre che si possa fare.

Il fiume. Non ci vado da una vita. Forse l’ultima volta è stata proprio con zio Ben, un sacco di anni fa – ed ecco una cosa che sarebbe meglio non raccontare a nessuno, neppure a qualche vecchio parente per alleggerire l’attesa per il funerale. Mi ero appena lasciato con D, cioè, era il giorno in cui lei aveva detto che non ce la faceva più e che voleva chiudere. L’avevo detto a zio Ben, più che altro perché significava che per un po’ sarei dovuto tornare da loro. Era una bella giornata disole, anche se a dirla tutta la ricordo con un vago senso di nausea, e zio propose di fare un giro. Non mi andava, c’infilammo in auto.
Guidò fuori città restandosene in silenzio, senza degnarmi di uno sguardo. Quando arrivammo al fiume disse – ordinò – di scendere. Era pieno di piccole mosche, umido, l’acqua puzzava di gasolio. Sedemmo per terra, vicino a un grande albero. Zio disse che forse non era stata una grande idea, andare fin lì, e finalmente sorrise. Poi, dal nulla, chiese come mi fosse saltato in testa di tradire mia moglie. Sospirai, mi sforzai di piangere e per un po’ ci riuscii.
“Be’ – disse zio – almeno adesso sai che non ci sei tagliato. Semplicemente non fa per te, ecco tutto. Ma non è colpa tua”.
Mi passò uno di quei fazzoletti di stoffa che teneva sempre in tasca. Senza pensarci lo esaminai a fondo, prima di soffiarmici il naso. Mi venne da ridere all’idea che zio potesse prestarmi un fazzoletto usato. Zio intuì, rise anche lui.
“Sai – disse, stavolta tranquillo – devo proprio confidarti una cosa. Magari non lo diresti, ma una ventina d’anni fa è successo anche a me. Con una collega, a scuola. È andata avanti per qualche mese, poi ho chiuso. Mi sentivo stupido. Più stupido di te, magari proprio perché l’ho fatta franca. E mi sono sentito terribilmente solo quando alla festa per il pensionamento, molti anni dopo, sono andato via subito, senza salutare nessuno meno che mai quella collega, perché non mi andava di restare troppo a lungo senza tua zia”.
“Quindi zia lo sa?”, domandai.
“No, le avevo detto che se non le andava di venire poteva restare a casa, e diciamo che lei non moriva dalla voglia di venirci. Volevo solo proteggerla, anche se non sapeva niente ed era passato non so quanto tempo. Ma è stato umiliante comunque. Non so perché te lo sto raccontando. Semplicemente non ci sei tagliato, oppure non funzionava. Tutto qua. Non è colpa tua.”

Giulia Mangione 2

Magari perché l’ho fatta franca: ho ripensato a questa frase per mesi, dopo quel giorno al fiume. Ecco, ho la sensazione che il vero zio Ben fosse in quella frase, oppure nella consapevolezza che prendere a calci il piccolo dei Calasso e obbligarlo a telefonare a casa fosse del tutto inutile; nel televisore a volume zero che guardava di notte quando non riusciva a dormire e aveva finito di rileggere tutti i suoi Simenon; nei dolci che mangiava di nascosto da zia dopo che il dottore glieli aveva vietati; nel fatto che ignorasse che no, non l’aveva fatta franca per niente, dato che zia sapeva del tradimento – me lo ha detto lei, un giorno che avevano litigato, tirando fuori storie vecchie di trent’anni in cui finì con l’infilare anche quella. Si scusò per lo sfogo, e a me non restò che fingere di non saperne niente.
Suppongo che il vero zio Ben fosse in quei segreti, in quelle involontarietà, in quelle piccole cose stupide e inutili. Così come io sto nella parentesi e da qui penso di proteggerlo. Fuori dalla parentesi, tutte le cose pubbliche che potrei scrivere nel dare notizia della sua morte lo tradirebbero. O almeno così dovrebbe essere. Il pubblico nega il privato, e la cosa è reciproca: non resta che l’intimità – paradossalmente, fuori da questo foglio, di là in soggiorno, c’è la vita: la bara aperta, le donne che piangono piano, senza convinzione, fissando il vuoto o le mani giunte sul petto del corpo tanto composto quanto posticcio di zio Ben. Di là c’è la vita vera e non la morte. La morte vera è qui nelle parole. Non sono sicuro di volerla portare fuori, agli altri, dove c’è solo un’apparenza di morte – a che ora arriva il carro? Perché non riesco a ricordarlo?

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Testo Malesangue
Foto Giulia Mangione

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